Tiriamo a Campari (*)

Campari

Image via Wikipedia

Sarà pure un luogo comune ma il connubio fra alcool e giornalismo esiste, eccome. Se non altro per chi questa professione l’ha vissuta consumando le suole delle scarpe e non con le chiappe appiccicate ad una scrivania. In tal caso, infatti, si sarà ritrovato gioco forza a  frequentare tutta una serie di locali – dai bar dei grandi alberghi alle bettole più malfamate – dove bere è spesso un dovere, prima ancora che un piacere; e starsene con un bicchiere in mano può risultare altrettanto utile che avere un block-notes o la penna. Forse Faulkner esagerava scrivendo che “civilitazion begins with distillation”. Ma non era così distante dalla verità. E allora, questo idillio fra alcool e giornalismo, vediamo un po’ di spiegarlo, più che celebrarlo.

Partiamo da Mosca. Ogni giornalista che ci sia stato, ai tempi dell’Unione Sovietica, ricorda bene quanto fosse difficile penetrarne i segreti, senza cadere nelle sabbie mobili della propaganda. E sa anche che la vodka – sì, la vodka – era il vero piedistallo su cui si reggeva il regime comunista. “Nell’Urss di quegli anni – scrive Carlo Rossella, ex inviato di Panorama – l’ubriachezza era per molti uno stato normale dell’esistenza. E la vodka un lubrificante indispensabile del vivere”. Quando c’era perciò bisogno di avere notizie certe, e non addomesticate, la vodka era un ponte ardito ma sicuro. Di cemento armato. Bastava procurarsene una bottiglia di quelle buone, piazzarsi di fronte al proprio interlocutore ed aiutarsi con il cibo: nel giro di un’ora si diventava suo fratello e il block-notes magicamente si riempiva di appunti.        

E’ un caso limite? Assolutamente no. Che si tratti della vodka a Mosca o dell’arak a Beirut, del pastis a Marsiglia o del cognac in Armenia, dappertutto l’alcool è stato ed è una sorta di passe-partout, che i giornalisti non disdegnano e di cui spesso fanno uso .

Per carità, esistono le eccezioni. E sono nobilissime. James Natchwey, probabilmente il più grande fra i foto-reporter di guerra viventi, se ne va in giro con le sue bottigliette di acqua minerale stivate nello zainetto, riuscendo a scattare lo stesso delle bellissime foto. L’ho visto inoltre lavorare in posti, come i Balcani, dove l’ospitalità è sacra ed è difficile rifiutare un bicchierino di slivovitz quando si entra in una casa. Lui lo fa e i suoi ospiti glielo perdonano. Allo stesso modo, ci sono fior di inviati speciali che non hanno mai bevuto un cocktail Martini eppure hanno vinto il Premio Pulitzer; o che hanno fatto la storia del giornalismo senza aver mai gustato un Ouzo, una Caipirinha o un Negroni. Ma non è di loro che qui si parla.

In queste note si cerca infatti di capire come e perché l’alcool sia stato un compagno di strada per tanti giornalisti più o meno famosi, di cui ha spesso aguzzato l’intelligenza e alleviato la solitudine. Sciogliendone la lingua, coccolandone  i ricordi e sostenendone la scrittura con una premura tale da fare invidia a una badante ucraina. In questo senso, l’alcool è stato per molti un accessorio del mestiere, uno dei tanti con cui andare a caccia di notizie e storie da raccontare: come la macchina da scrivere, la radiolina a transistor, il coltellino multi-uso e la torcia tascabile(…)

* Pubblicato sul numero 35/2011 della rivista East. Per continuare a leggere vai su http://www.eastonline.it/article/tiriamo-a-campari

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