Orgoglio e Pregiudizio | Ferri Vecchi

Orgoglio e Pregiudizio

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Di bianco m’abbaglia

Non provate a cercarla sulle comuni carte geografiche perchè non c’è. E non provate ad andarci perchè è una “città chiusa”, cui si accede solo se autorizzati, come ai tempi dell’Unione Sovietica. Vi dico però che si chiama Novy Urengoy ed è un puntino sperduto nell’immensa Siberia, nei pressi del Circolo Polare Artico. E’ sorta nel 1975, per via del petrolio. E s’ingrandisce anno dopo anno, perchè da queste parti gli stipendi sono più elevati che nel resto della Russia. Il motivo? Semplice. A Novy Urengoy nessuno resiste a lungo.

Più che una città, sembra un miraggio, una Fata Morgana delle nevi, che t’abbaglia per il bianco e ti stordisce per il freddo. Quando ci sono stato io, con Nino Fezza e Sergheij Kalinin, c’erano 36 gradi sotto lo zero. La norma, laggiù, d’inverno. Col risultato che fare interviste all’aperto era un’impresa – perchè le parole ti si gelavano in bocca – ed anche la telecamera dopo un po’ faceva la condensa e si rifiutava di lavorare. Eppure, c’erano bambini che giocavano nei giardini pubblici, uomini allegramente a passeggio e mamme impegnate nello shopping. Ma loro, gli abitanti, pare che abbiano sviluppato un sistema circolatorio più capillarizzato e quindi più adatto al clima; al punto che quando vanno via, in regioni più temperate, come sul Mar Nero, hanno problemi di cuore e fanno fatica ad adattarsi. Noi invece facevamo fatica lì, una fatica boia, anche a respirare.

Freddo a parte, Novy Urengoy – che conta più di 100mila abitanti –  è soprattutto la città di Gazprom, il colosso russo dell’energia. Che quaggiù è padrona di tutto o quasi: bar, alberghi, ristoranti, scuole, ospedali , teatro e non so cos’altro. Tutti qui lavorano per Gazprom, direttamente o nell’indotto. Ed è Gazprom che decide chi entra e chi esce dalla città, chi lavora e chi no. E’ un po’ come nei villaggi del Far West o del Klondike, ai tempi della corsa all’oro; quando il riccone senza scrupoli faceva affari sfruttando il lavoro dei poveri cercatori senza capitali, costretti a vendersi anche le mutande. Qui non è che sia tanto diverso. Solo che al posto dell’oro c’è il petrolio. Stesso miraggio. E stessa maledizione.

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Gheddafi e il Panettone

Non si dà pace, Angelo del Boca. Per una guerra a cui l’Italia avrebbe dovuto e potuto dire di no. E per le sorti non certo magnifiche e progressive che attendono la Libia e il suo popolo. Sempre ammesso che si riesca a far fuori Gheddafi, conditio sine qua che il nostro illustre storico del colonialismo ritiene sì acquisita ma niente affatto imminente.

“Certo, la taglia da un milione e mezzo di dollari che pende sulla sua testa potrebbe accelerare i tempi – ci dice nella sua casa di Torino, immerso fra i suoi libri – E non è da escludere che qualcuno dei suoi faccia quel gesto eclatante e risolutorio che la Nato e il CNT sognano ormai a occhi aperti. Ma per ora nella sua cerchia ristretta non ci sono falle. E resistono anche i suoi sostenitori, che non sono affatto centinaia – come vorrebbe la propaganda dei ribelli – ma molti, molti di più. A Bani Walid, a Sirte, a Sebbha e a Kufra.” Del Boca è convinto anche che Gheddafi conservi buona parte del suo arsenale, missili soprattutto, il che rischia di allungare i tempi di una guerra che in troppi e troppe  volte hanno dato per finita. “Non mi stupirei – conclude – se Gheddafi arrivasse fino a Natale”.  

Del Boca lo conosce bene, il raìs libico. L’ha incontrato diverse volte, ne ha studiato la  fenomenologia del potere,  il pensiero e le opere, giungendo alla conclusione che non si tratta di un volgare tiranno da operetta, come spesso si tende a dipingerlo. “E’ un personaggio complesso – di dice – dai mille volti, non tutti negativi.” E poi aggiunge: “Gli ho fatto pervenire le mie condoglianze in occasione del bombardamento della Nato in cui sono stati uccisi suo figlio Seif el Arab e i suoi tre nipotini. Una barbarie, rispetto a cui nessuno ha mostrato pietà, come invece era doveroso. Gheddafi mi ha ringraziato”. Ecco un uomo che non paura delle proprie idee. Ed è coerente.

* L’intervista con Angelo del Boca verrà inserita in una prossima puntata de LA STORIA SIAMO NOI, dal titolo “MUAMMAR GHEDDAFI: I VOLTI DEL POTERE”.

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Squadrismo digitale

I dibattiti non mi spaventano, anche quando vola qualche parola di troppo. Quello che però non sopporto è lo squadrismo premeditato – nero o rosso che sia – e la caccia all’untore che fomenta. Mi piacerebbe perciò che i teppisti digitali e tutti gli esagitati che usano le parole come manganelli vengano messi al bando, isolati e sconfessati. Perchè nemmeno la Rete, che vuole essere Democratica e Partecipativa, può tollerare certe derive.

Tutto è cominciato su questo blog, con una lunga e pacifica discussione su verità e contro-informazione sulla guerra in Libia. Questo è il post iniziale e questi i commenti.  Sono intervenuti a latere Pino Cabras su Megachip, Marinella Correggia via mailCristiano Tinazzi e Mazzetta sui rispettivi blog. Ai margini della discussione, che ho trovato assai stimolante, si sono invece scatenati  gli insulti personali , le calunnie e la diffamazione, in un crescendo che non ha fine e di cui vi risparmio i link, per non fare pubblicità agli imbecilli. Preferisco semmai citare l’aggressione subita dal demenziale Fulvio Grimaldi, sul suo blog, perchè le sue farneticazioni pirotecniche sono l’esempio lampante di come si possa fare dello squadrismo digitale camuffato da contro-informazione.

Può darsi che io abbia sbagliato a mettere Grimaldi & Co. nella stessa “compagnia di giro” di Giulietto Chiesa, Marinella CorreggiaMegachip. Mi piacerebbe però capire se i suoi toni, il suo metodo e le sue affermazioni sono condivise anche da loro.

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Ventose, Citofoni & Giornalismo d’inchiesta

“Scusi, è lei il cugino del famoso camorrista Tal dei Tali?”. E l’altro, dal citofono: “No, non c’è nessuno qui. Se ne vada.” Ma il reporter incalza:  “Guardi, volevo solo sapere che ne pensava dell’ultimo agguato a Vattelappesca…”. Ancora dal citofono: “Via, vada via. Fuori dai coglioni. Ha capito?”. Stand-up finale, con tanto di sorriso : “Vedete, qui nessuno parla. E la tensione è alle stelle”.

Il dialogo è immaginario. Ma non più di tanto. Perchè il giornalismo televisivo d’inchiesta, all’italiana, sì è ormai affezionato ad un armamentario di mezzucci che magari fanno scena – e un poco di ammuina – ma sono di dubbia eticità e non contribuiscono certo a fare informazione corretta. L’uso del citofono è un must. Ad inventarlo sono stati i Santoro’ Boys, tanti anni fa, e ormai è diventato un tratto distintivo del nostro giornalismo d’assalto, di cui maschera le insufficienze. Tutte le volte che non si riesce a cavare un ragno dal buco, ci si appende infatti ad un citofono, sperando di trovare un condòmino abbastanza incazzato, con cui buchare il video (anzi, l’audio, perchè il tizio non si vede nemmeno). Più popolare ancora è la ventosa, ovvero la telefonata registrata e (quasi sempre) non dichiarata. Si accende la telecamera in redazione, si fa il numero prescelto e si provoca a ruota libera l’interlocutore, in genere vip, che non sa di finire in onda e, quindi, piscia spesso fuori dal vaso. L’ultima trovata è infine la micro-camera, che diversi colleghi utilizzano non per filmare l’Afghanista dei talebani e dei mille divieti ma le banali e sboccate conversazioni da bar, in luoghi pubblici, su temi però provocanti – chessò: l’immigrazione clandestina, dopo un fatto di cronaca, o la pena di morte – e ovviamente su apposita imbeccata (del giornalista).

Al limite del consentito sono infine i fuori-onda, vale a dire le dichiarazioni rese off the record, alla fine di un’intervista, che non sempre hanno un interesse supremo che le giustifica; e le docu-fiction, con cui vengono drammatizzate le intercettazioni telefoniche ed altre situazioni cui il giornalista non ha assistito ma di cui si sente autorizzato a fornire una rappresentazione, che spesso è viziata dalla soggettività.

Si dice spesso che l’uso di queste scorciatoie sia l’unica risposta possibile al Potere, che si è fatto sempre più opaco e sempre più arrogante. Il citofono e la ventosa, insomma, sarebbero armi (improprie) della contro-informazione. Io non ci credo. Penso semmai che siano lo specchio di un mestiere, il nostro, in cui si ha sempre meno voglia di consumare la suola delle scarpe e si ha un’idea sempre più vaga delle regole a cui attenersi. 

P.S. A chi voglia saperne di più su questo mestiere e sulle sue declinazioni all’italiana consiglio caldamente un vecchio libro di Wolfgang Achtner, IL REPORTER TELEVISISIVO, che è ancora attuale.

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I gattopardi di Tripoli (*)

Ethnic groups in Libya, 1974.

Image via Wikipedia

*  Fonte: Guido Rampoldi su REPUBBLICA del 16-09-2011

“Mentre sta per concludersi il sesto mese di una guerra che sembrava destinata a durare poche settimane (cominciò il 19 marzo 2011, con il primo bombardamento francese sulla Libia), non sarà il caso di domandarsi cosa sia successo e cosa potrà accadere?” (continua a leggere)

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Raccontare per immagini

Così come sulla carta stampata domina il racconto con le parole, in Tv dovrebbe prevalere  il racconto per immagini. Che ha in sè una grande potenza, perchè la forza espressiva di una sequenza filmata è unica, impareggiabile. La scrittura evoca, infatti, mentre l’immagine va oltre, trasformando una notizia in azione e, soprattutto, annullando la distanza che separa noi telespettatori da un avvenimento, che ci viene restituito in tutta la sua ricchezza (o quasi) e senza (troppe) mediazioni.

Da qui il successo di reportage, inchieste e documentari filmati, che hanno fatto a lungo la fortuna della televisione. Anche in Italia. Basti pensare al TV7 di Zavoli , e poi a Mixer di Minoli, Samarcanda di Santoro e tante altre trasmissioni che sul racconto per immagini hanno costruito il loro successo, per decenni. Adesso invece è finita, o quasi. Ormai da qualche anno vanno infatti di moda i talk-show, che a dire il vero ricordano più la radio che la televisione, oppure il teatro, visto che hanno tutti la solita compagnia di giro, le solite risse e il  solito bla-bla. Di servizi filmati, in queste trasmissioni, ce ne sono sempre di meno, e sono sempre più corti, banali e al massimo pruriginosi, più che informativi.                                          

Eppure c’è una bella differenza tra il fare un’inchiesta filmata sulla “casta” e un talk-show sull’argomento. Oppure fra un reportage sulla guerra in Libia e un dibattito in studio sullo stesso tema. La ricchezza delle informazioni è ben diversa. E l’appeal del racconto pure, direi. Ma mentre in Francia una trasmissione come Envoyé Special va in onda da trent’anni in prima serata, in Italia il racconto per immagini è confinato alla terza serata, quando va bene. Non è solo una questione di costi. E’ una scelta editoriale. Ma a me non convince.

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Giornalismo mainstream e social networks

Malgrado le apparenze, il boom dei social metwork sta cambiando in profondità il processo di produzione delle notizie nei grandi media tradizionali. E non poche sono ormai le testate mainstream che hanno integrato a pieno titolo i contenuti informativi user generated (UGC) che provengono dalla Rete artecipativa. Addolora semmai osservare come l’Italia resti il fanalino di coda, senza esperimenti di rilievo al riguardo, a parte quei pochi fatti al solo scopo di risparmiare sul personale giornalistico e di ridurre perciò i costi.

Per la BBC, ad esempio – come ci riferisce Pino Bruno – l’avvento dei social network è stato un terremoto positivo. Perchè ha permesso di ampliare sia le fonti di informazione che il pubblico, con il quale per la prima volta è possibile interagire e dialogare, fornendo in cambio informazioni arricchite e in tempo reale. Ci sono, com’è ovvio, problemi legati alla verifica di queste nuove fonti, all’anonimato dilagante in Rete e al rispetto della privacy. Ma l’adozione di un codice etico e deontologico molto rigido ha permesso finora alla BBC di mantenere uno standard abbastanza elevato e di evitare brutte figure. 

D’altro canto, che i social network non siano nemici del giornalismo lo si è capito da tempo. Lo dimostrano in primo luogo diversi studi di marketing. E lo conferma l’esperienza delle testate che hanno avuto il coraggio di accettare la sfida. Un altro esempio è dato dalla CNN, che fin dal 2006 ha lanciato iReportuna struttura creata apposta per reperire e trattare UGC. Oggi iReport è diventata una vera e propria community online, dove -come recita la pubblicità – “people take part in the news with CNN”. Solo nei primi due anni, iReport ha processato 100mila contributi, di cui il 10% è andato in onda. E negli ultimi eventi globali, dal terremoto di Haiti alle primavere arabe, questa percentuale è cresciuta di molto. 

In Italia, invece, si fa fatica a trovare esperimenti così strutturati, sia nel pubblico che nel privato. Lo dimostra la parabola assai travagliata di Current Tv e lo conferma l’approccio editoriale debole (e un po’ conservatore) di molte testate, ieri come oggi interessate più alla riduzione dei costi che all’arricchiemento dell’offerta, soprattuto nel campo delle news. L’unica consolazione è sapere che il futuro entra in noi molto prima che accada.  

 

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Come dirsi addio

In amore, ca va sans dire, lasciare è meglio che essere lasciati. Anche se a volte è difficile  trovare le parole giuste. Col rischio di fare disastri, scatenando crisi isteriche o cicloni di insulti. Per correre ai ripari, può essere utile questo Catalogo degli addii, scritto con eleganza da Marina Mander ed illustrato con i bellissimi disegni di Beppe Giacobbe. E’ una sorta di prontuario, da tenere a portata di mano quando una storia d’amore è agli sgoccioli e si è decisi a mollare gli ormeggi.  Da usare ovviamente con parsimonia.

Mi permetto di segnalare gli addii che più mi sono affini:

“Avevamo proiettato uno sull’altro i nostri desideri. Ma il cinema è rimasto spento, non è venuto nesuno a vedere il film della nostra vita, ci siamo addormentati come amici, in ultima fila. Non ci resta che spegnere l’insegna. Addio” (pag. 45)

“Il tuo ricordo si è scordato piano piano; poi, con uno starnuto, è uscito del tutto. Addio”  (pag. 51)

“Abbandonarsi o abbandonare? Purtroppo io sono transitivo. Addio” (pag. 79)

“La distanza fra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere mi porta già altrove. Addio” (pag. 83), 

“La mia anima non s’intende di meccanica. Poichè non so riparare i danni, sono costretto a sostituire. Addio” (pag. 93)

“Una storia un po’ scema non può che scemare. Addio” (pag. 143)

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L’Africa e i treni a vapore

Di treni me ne intendo perchè sono calabrese. E il mio apprendistato l’ho fatto sulla mitica  Freccia del Sud su cui  hanno sofferto e costruito la loro educazione ferroviaria intere generazioni di meridionali in viaggio per il nord. Quando si parla perciò di notti insonni, di promiscuità oscena e di claustrofia da soffocamento so bene di cosa si parla. E non mi si dica che era tutto molto romantico, per via delle valigie di cartone, del pane fatto in casa e delle bottiglie di vino che giravano da uno scompartimento all’altro, con grande generosità. Io smadonnavo e basta. Perchè ho sempre detestato gli assembramenti e le folle, anche quando ero comunista.

Il viaggio in treno più traumatizzante l’ho fatto però in Africa, con Nino Fezza. Sul treno Dakar-Bamako, L’Express, che impiega ancora oggi non meno di 48 ore per fare 1250 chilometri. Noi siamo saliti a metà percorso, a Tambacounda, ma vi assicuro che basta e  avanza. Innanzitutto perchè L’Express è un treno random, che non ha orari fissi e non si sa mai quando e se c’è. Può darsi che sia deragliato, che l’abbiano sospeso, che sia stato attaccato dai banditi oppure che si sia perso nella brousse per uno dei tanti misteri africani su cui un toubab, un bianco, è inutile che faccia domande. E poi salire sull’Express vuol dire abituarsi all’idea di stare fermi, immobili, per ore e ore, come fachiri indiani. Il treno è infatti stracarico di gente, animali e bagagli. E si sta gli uni appiccicati agli altri, i più fortunati seduti, gli altri in piedi, senza poter muovere nemmeno un sopracciglio. Noi non siamo riusciti nemmeno a filmare, che  era lo scopo del nostro viaggio. E all’arrivo a Bamako mi sono accovacciato come tutti sui binari, in stazione, per fare finalmente i miei bisogni corporali, dopo 12 ore, perchè l’unica toelette dell’Express era occupata da un montone e da diverse galline. 

In confronto, la Gazzelle, che collega Abidjan a Ouagadougou, è un Eurostar. Non tanto per la velocità, che in Africa è un’astrazione, quanto per il fatto che ci sono scompartimenti da sei e quindi un minimo di comodità. Puoi chiacchierare con i tuoi vicini, sgranchirti le gambe, comprare cibo alle fermate sporgendoti dal finestrino, e soprattutto puoi bere qualche birra fredda – ma solo alla partenza, nelle singole stazioni, perchè poi il ghiaccio nel quale le tengono si squaglia – nell’angolo dove bivacca il controllore, che arrotonda così il suo stipendio. 

Mi manca in Africa il treno che da Djibouti sale fino ad Addis Abeba, il treno del Negus.  Ma spero prima o poi di salirci. Mi dicono che sia fra i più pericolosi, perchè il percorso è molto accidentato e gli attacchi dei predoni non sono un’eccezione ma l’abitudine. Vedremo.

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